Un
transito in fretta nella città dove abito giusto per il cambio bagaglio; non è
un segreto per chi mi conosce che non nutra un amore particolare sviscerato per
la città dove, per i casi della vita sono finito ad abitare.
Professionalmente
parlando non mi ha mai dato niente, per i casi della vita appunto, ci abito e
basta e qualche volta ci torno a dormire.
Attraverso
il centro tra il mercato degli ambulanti che stanno smobilitando più presto del
solito, persone con le borse della spesa stanno rincasando in fretta, mamme e
papà che vanno a prendere i figli a scuola di fretta.
Anche
il corso è deserto, un signore, (un c.q., un coglione qualsiasi) chiuso nel suo
giaccone di montone, il cappello a tesa larga con la piuma, un flute di
prosecco in una mano e il sigaro nell’altra, all’ora dell’aperitivo irride i
negozianti intenti ad imbottire per proteggerle, le vetrine con gomma piuma
nascosta sotto fogli di giornali e sacchi di plastica chiedendo se si stanno
preparando alla presa della Bastiglia, non sapendo ancora cosa si sta
preparando da li a poco.
Ostaggio
mio malgrado (deve essere una nuova forma di promozione turistica quella di
regalare chiavi in mano per un sabato una città a un gruppo di delinquenti,
teppisti e vigliacchi) in una città messa a ferro e fuoco, rinuncio a partire
perché anche la stazione è presa di mira.
Cercando
come tutti quelli rimasti intrappolati nelle vie del centro, una via di fuga
che mi consenta di tornare a casa, tra la nebbia dei fumogeni, pali divelti
della segnaletica scavalcati, costeggiando vetrine di attività commerciali e
banche sfondate, incrocio una giovane adelante companera, secondo me part
time (ha tutta l’aria di una che, durante la settimana, non bevuta e non fumata
potrebbe essere una normale impiegata, operaia o studentessa) avvolta nel
suo eskimo che puzza di un misto di canna, fumogeni e vino rosso, mi dice
che se la seguo in un portone dentro a un vicolino, in cambio di qualche
spicciolo potrebbe organizzare qualche cosa.
Rientro
a casa dopo più di tre ore, penso che dopo quello che ho visto, se
fosse grandinato con chicchi grandi come palloni da basket i danni
sarebbero stati minori. Accendo
la tv, l’unica della città, quella del cavaliere, trasmette la pubblicità dei
suoi tubi e un concerto di due che suonano, uno il pianoforte e l’altra il
violino.
Riesco
a partire se non l’indomani mattina presto per raggiungere la mia squadra. Sul
treno per Milano ritrovo l’adelante companera che, finita la fiesta
probabilmente sta rientrando a casa.
Non
mi riconosce e non avevo dubbi, questa volta mi racconta che, siccome è
senza biglietto e non ha i soldi, se la seguo nei bagni del treno per qualche
spicciolo potrebbe organizzare qualche cosa.
Viene
trovata senza il biglietto e con il coraggio dei cagasotto (quelli forti nel
branco ma che presi uno ad uno si riempiono le mutande) scoppia a piangere.
Me
ne frego e continuo a leggere il giornale, sugli striscioni nelle fotografie
degli articoli leggo che pagheremo caro che pagheremo tutto e scritte con
richieste di solidarietà.
Sorrido
perché in fondo è vero, a pagare saremo ancora una volta noi, come sempre,
magari anche in comode rate mensili a partire dalle prossime bollette ma sempre
e comunque solo noi.
Anche
sulla solidarietà sono d’accordo, però a chi negli
ospedali non ha potuto ricevere il conforto dei parenti perché a mezzi pubblici
e ai taxi era impossibile circolare ed a chi ha avuto in un giorno solitamente
dedicato al relax e al riposo, un sabato di ordinaria follia
preannunciata e largamente prevedibile, in una città che mi piace sempre di
meno, l'attività commerciale distrutta e a chi ha visto i sacrifici di una vita
andati in un fumo che si confonde con quello delle bombe incendiarie e dei
lacrimogeni.
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